All’aeroporto un viaggiatore sfoglia il proprio documento e non trova più il suo Paese nella classifica d’élite: è l’immagine concreta di un cambiamento che ha toccato il passaporto degli Stati Uniti. Per la prima volta dopo vent’anni quel documento è uscito dalla top ten del potere di viaggio, una misura pratica della libertà di movimento che pesa su affari, turismo e relazioni diplomatiche. Il dato è netta fotocopia di una trasformazione più ampia: non è solo una graduatoria, ma uno specchio delle relazioni tra Stati e delle politiche sui visti.
La sorpresa degli Usa e la classifica globale
Il rapporto Henley Passport Index posiziona gli Stati Uniti al 12° posto con accesso senza visto a 180 Paesi, lo stesso numero della Malesia. Solo un decennio fa il documento americano era tra i più privilegiati; il calo riflette cambiamenti nelle regole di ingresso e nella percezione di reciprocità tra governi. In cima alla graduatoria ci sono Singapore con 193 destinazioni, seguita da Corea del Sud e Giappone, mentre l’Europa domina la parte alta della lista con una nutrita presenza di Stati occidentali.

L’Italia figura saldamente tra i leader: il passaporto italiano permette di entrare senza visto in 188 Paesi, posizionando il Paese al quarto posto assieme a Germania, Spagna, Lussemburgo e Svizzera. Questo posizionamento deriva da accordi bilaterali e dall’appartenenza all’Unione Europea, che garantisce mobilità intraeuropea e peso negoziale negli scambi con Paesi terzi. Un dettaglio che molti sottovalutano è come le relazioni commerciali e culturali influenzino direttamente questi numeri, più della semplice politica estera formale.
Perché l’Italia resiste e il calo del passaporto americano
L’elemento centrale del valore di un passaporto è la rete di intese che lo sostiene. L’Italia ha consolidato, nel tempo, scambi economici e culturali con aree come l’Asia, l’America Latina e il Medio Oriente; questo ha portato a un aumento delle esenzioni dal visto e a una maggiore fiducia reciproca. La combinazione di stabilità economica, diplomazia attiva e il supporto istituzionale dell’UE mantiene elevato il livello di mobilità per i cittadini italiani.
Al contrario, il calo del primato statunitense è il risultato di scelte e reazioni internazionali. Nel corso del 2025 alcuni Stati — tra cui Brasile, Papua Nuova Guinea e Myanmar — hanno modificato o ritirato l’esenzione dal visto per i cittadini americani, mentre altri hanno aperto accordi privilegiando Paesi europei o asiatici. A questo si è sommata una percezione di minore reciprocità dovuta a politiche migratorie più restrittive adottate negli anni precedenti. Le misure attuate durante l’amministrazione Trump, come la revisione di milioni di visti, sono citate dagli osservatori come fattore che ha inciso sulla credibilità diplomatica degli Usa.
Oggi i cittadini statunitensi incontrano nuove limitazioni pratiche, come l’obbligo di autorizzazioni elettroniche (ESTA) per entrare in alcune destinazioni europee o nel Regno Unito, mentre altri Paesi ricalibrano le proprie aperture in favore di nazioni ritenute più collaborative. Il presidente di Henley & Partners, Christian Kaelin, sintetizza la tendenza: le nazioni che puntano su apertura e cooperazione avanzano, chi cerca di mantenere privilegi del passato resta indietro. Un aspetto che sfugge a chi vive in città è che questi cambiamenti incidono anche sulle aziende e sui ricercatori, non solo sui turisti: meno accesso senza visto significa costi maggiori e procedure più lente per scambi professionali e culturali.
Il risultato pratico è un divario che tocca i 169 Paesi tra i documenti più e meno accettati, con Afghanistan, Siria e Iraq nelle posizioni più basse: numeri che rimandano a conseguenze economiche e sociali concrete, e che molti osservatori internazionali seguono per capire come si ridefiniscono gli equilibri di mobilità nel mondo.